Tutto fatto alla belin di cane


Tutto alla belin di cane

Tutto alla belin di cane

Mio figlio Gabriele, otto anni compiuti a Gennaio, attraversa quella magica fase purtroppo breve della vita, in cui tutto è scoperta e conseguente meraviglia.
Ogni mattina, durante il tragitto a piedi che ci conduce alla sua scuola, siamo soliti parlare di piccole questioni organizzative famigliari come di massimi sistemi tipo la struttura dell’universo e simili leggere curiosità.

Ogni genitore conosce perfettamente la difficoltà che si incontra quando, cercando di spiegare temi delicati, si tenti di fornire giuste risposte, adeguandole alla comprensione di un bambino.

Stamani, a metà salita, sorprendendomi non poco, ha lanciato nel silenzio del verde circostante, un quesito di tutto rispetto: “cosa significa alla belin di cane?”.
La frase, probabilmente sentita in giro, o carpita durante una delle mie telefonate, mi ha immediatamente riportato agli anni dell’infanzia, durante i quali mio padre mi insegnava il genovese, compresi proverbi e modi di dire.

La risposta si è accademicamente limitata al puro significato simbolico, senza particolari precisazioni sugli aspetti morfologico veterinari: “significa fare le cose in maniera approssimativa e superficiale”.

Dopo il bacino rituale che celebra la nostra separazione fino a sera, e la salutare corsetta di 12 metri per conquistare il 356 delle 8:03, mi sono seduto al solito posto, inforcando gli occhiali da lettura, iniziando ufficialmente la giornata lavorativa, spalando posta elettronica tramite smartphone.

L’autista Amt, come ultimamente spesso accade durante le prime ore del mattino, ha mantenuto una velocità da rally,  dando vita all’ineguagliabile effetto bandiera degli over settanta, che diligentemente si recano al mercato di buon ora.

Sceso alla fermata della Metropolitana di Brignole, ho osservato silenzioso l’ascensore fermo da mesi, sepolto dalla segnaletica semi distrutta, oramai ricettacolo di spazzatura di varia natura.

Dopo una breve attesa allietata dalle note di Radio19 mal sintonizzata, sono salito a bordo della prima carrozza le cui porte sono state aperte mentre il convoglio era ancora in movimento, ed uno scossone di assestamento ha garantito a coloro che avevano posizionato un piede sulla vettura, alcuni secondi di emozionante incertezza.

Giunto a San Giorgio e prima di percorrere la scala di cemento parallela a quella mobile da tempo immobile, il mio occhio è caduto sulla stufetta elettrica posta all’interno del gabbiotto di controllo, atta a riscaldare l’addetto imbacuccato come un eskimese; piastrelle a mosaico, vetrate da astronave, teche per presentare gli scavi archeologici ma nessun impianto di condizionamento previsto per un vano dove una persona trascorre immobile 8 ore di turno monitorando degli schermi.

Attraversata Piazza Caricamento, facendo uso delle limitate doti di equilibrista, per non inciampare rovinosamente in mezzo ai blocchi divelti di cemento che costituiscono la pavimentazione, una curiosa ultima immagine ha carpito la mia attenzione prima di entrare in ufficio: un singolare laghetto generato dallo stillicidio delle grondaie bucate della sopraelevata, che costringe i pedoni a scendere dal marciapiede.

Ecco come iniziare una splendida giornata alla belin di cane.